Cucinare è donare una parte di sé
Amo i film di cucina e mi piace preparare dei piatti per la mia famiglia e gli amici. Perché mettersi ai fornelli è una metafora della vita. E non si finisce mai di imparare
Questa sera ho visto un film leggero su un ragazzo che ha l’estro e la passione per la cucina. Il film è gradevole ma non lo consiglierei a degli appassionati. Però amo vedere i film che hanno la cucina come tema. Bellissimo è Il gusto delle cose di Trần Anh Hùng con Juliette Binoche e Benoît Magimel, premiato al Festival di Cannes nel 2023 e candidato ai César quest’anno. È un film in cui si cucina dall’inizio alla fine. La trama è deliziosa, la regia anche. È ancora nelle sale, non perdetevelo, se riuscite. E soprattutto se vi piace cucinare.
Cucinare è una cosa che ho imparato a fare 18 anni fa, quando sono rimasto solo. Chi mi avrebbe fatto le lasagne? Io. Chi mi avrebbe fatto lo spezzatino? Io. Bastava mettersi il grembiule e provare, sbagliare, sbagliare ancora e poi provare altro e altro ancora. Poi è arrivato per me quello che molti chiamano vegetarianesimo “light” (e che io chiamo «nonmangiocarnesolomoltoraramentefruttidimare) e bisognava uscire dalla caprese o dalla parmigiana di melanzane, no? Allora ho imparato a fare un delizioso spezzatino con le bistecche di soia e credetemi se c’è chi non s’è accorto che non era carne. Oppure le lasagne con qualsiasi verdura, zucca, al pesto, con i funghi. Un paio di settimane fa ho cucinato un salmone (veg) con panna (veg) e nessuno si è accorto che non era salmone vero.
Poi è arrivato nei miei reels il cuoco che si fa chiamare «Rapanello» e grazie a lui mi sono cimentato anche nella panificazione; se lo segui ti porta in un mondo di sapori con ricette facili da preparare con pochi euro e con quello che c’è in casa.
La ricetta del primosale di Rapanello
Insomma, mi correggo, non posso affermare di avere «imparato a cucinare», ma posso dire che cucinare mi piace. Preferisco non sbagliare, ma se non sbaglio non imparo a non sbagliare.
E mi sembra proprio la morale della vita: si mischiano i sapori, si cercano gli abbinamenti, si prova e si osa per non morire di noia, perché non si può mangiare sempre la stessa cosa (anche se sono ghiotto di pomodori e in estate li mangio tutti i giorni…).
A me piace cucinare per gli altri. Per mia moglie e per suo figlio, per i miei figli quando ci sono, per gli amici. Oggi mio figlio mi diceva la stessa cosa: «Ieri sera ho cucinato per tutti in casa, mi piace cucinare per gli altri». Le cose si imparano respirandone l’aria, sua madre cucinava, da 18 anni cucino anche io.
La cucina è una metafora della vita perché è stimolante cercare le cucine di altre culture: in India ho imparato da fare il dahl, la zuppa di lenticchie con una ricetta di un ristorante di Khajuraho; in Israele (e nel quartiere ebraico a Parigi) mi sono innamorato dei falafel e dell’hummus; ad Alba un cuoco mi ha insegnato a cucinare il risotto; a Napoli mi sono innamorato del gattò di patate; dalla nonna provenzale ho imparato a fare l’aïoli; non finisco mai di imparare, mi ci vorrebbero 10 vite e non basterebbero. Avrei voluto fare una scuola di cucina, ma il tempo manca e allora mi arrabatto cercando di carpire i segreti qui e là.
Qualche volta mi dicono “bravo”, ma non è per questo che cucino, anche perché come al solito io so tutti i difetti dei miei piatti. Ma cucino perché il cibo per me è comunicare, è donare, è condividere, anzi, partager, perché il termine francese sottolinea il fatto che doni una parte di te stesso. Se non lo avete mai fatto, se sapete fare solo un uovo (come sento spesso dire dagli uomini) non sapete cosa vi perdete. Ma potete iniziare a qualsiasi età, con l’umiltà di cercare, imparare, sperimentare e affinare il palato per mixare i sapori. Vi assicuro che sarà un’avventura meravigliosa.